Sembrava impensabile. E invece l’Italia ha sofferto anche contro la modestissima Moldova. Siamo ancora un paese calciofilo?
C’è poco da girarci intorno, la nazionale è il tema del momento. Se ne parla ovunque. Al Bar, allo sportello delle Poste, in ufficio, a tavola con i parenti. Tutti esprimono la propria opinione, quasi sempre con tono critico e intransigente (giustamente).
La pazienza è terminata. Il rischio di guardare dal divano il terzo mondiale di fila può trasformarsi in realtà. Dopo la rovinosa sconfitta in terra scandinava contro i vichinghi Norvegesi, i play-off sembrano l’unica via che può condurci al prossimo mondiale americano.
Si tratta però di una strada tortuosa. La nostra nazionale infatti non ha un bel feeling con gli spareggi.In passato ci siamo impatanati su Svezia e Macedonia del Nord, non proprio due colossi del calcio internazionale (eufemismo). Ma anche la stessa Norvegia, nazione che conta soltanto 3 partecipazioni ai mondiali, non ha una tradizione calcistica equiparabile a quella del nostro paese. E allora perché tutto questo divario?
Il sistema
Partiamo dal principio. In questi giorni il tema del sistema è molto chiacchierato. Molti ne parlano vagamente, altri invece snocciolano la questione, analizzando ogni singolo dettaglio. La causa del fallimento non è però riconducibile a un singolo fattore o a un unico esponente.
Tuttavia nel marasma generale, il problema più evidente non è così complicato da individuare: dai settori giovanili escono pochi talenti futuribili, troppo pochi. E per non farci mancare nulla, i pochi che hanno potenziale non vengono valorizzati.
L’Italia una volta sfornava campioni del calibro di Pirlo, Totti, Del Piero, Baggio. Oggi invece i forni sono spenti. Il sistema italiano forgia calciatori anonimi, senza estro, poco determinanti e ancorati a concetti tattici che lasciano il tempo che trovano.
Nelle scuole calcio non si insegnano più i fondamentali, come lo stop orientato o il dribbling, ma l’attenzione è posta sulla diagonale difensiva o peggio ancora sulla trappola del fuorigioco. Tutto questo per alimentare l’ego smisurato di alcuni allenatori, che amano mettersi sul piedistallo a discapito dei piccoli calciatori.
La Spagna ha Yamal e Nico Williams, la Francia ha Doue e Barcola, la Germania ha Musiala, il Portogallo ha Joao Neves e Nuno Mendes . E l’Italia?
L’Italia è ancora un paese calciofilo?
La casacca azzurra sembra aver perso tutto il suo appeal. I giocatori la rifiutano, mentre i tifosi cambiano rabbiosamente canale per guardare Sinner.
Le partite della nazionale non sono più un evento folkloristico che unisce tutta la popolazione. Quello che un tempo era un evento sacro, ora sembra essere irreversibilmente diventato profano.
Le nuove generazione si disaffezionano e migrano verso nuovi lidi (vedi il fenomeno tennis). Il rischio? Se pensiamo di aver già toccato il fondo, attenzione. Nei prossimi anni potremmo raggiungere picchi ancora più bassi.
Cercasi soluzione
La drammatica situazione in cui riversa la nazionale azzurra è anche figlia di un campionato in cui gli italiani sono una minoranza.
I numeri parlano chiaro: il 62% dei calciatori in Serie A è straniero, la percentuale più alta tra i top cinque campionati europei, testimonianza chiara di una crisi profonda.
Crisi che necessita di una soluzione. Di una toppa che sia in grado di ricucire un buco che rischia di diventare eccessivamente largo. Trovarla però non è banale.
Non sarà sufficiente cambiare commissario tecnico. Bisognerà avere l’umiltà di revisionare dalla testa ai piedi un sistema che non si regge in piedi ormai da anni. L’europeo vinto nel 2021 è stata un’illusione. Per un momento abbiamo pensato fosse tornata l’età dell’oro. Invece si è trattato dell’unica nota colorata di un ventennio cupo.
Le notti magiche non sono mai state così distanti. E se non si cambia (ora), saranno destinate a essere solo un ricordo, raccontato dai pochi privilegiati che hanno vissuto davvero la nazionale italiana di calcio.